La grande bellezza è altrove

Standard

“Evocativo” è, secondo il giudizio di chi scrive e di buona parte del senso comune, qualcosa che allude a qualcos’altro senza bisogno di riferirvisi direttamente, che vi alluda cioè senza esplicitarlo, lasciando degli spazi liberi all’interpretazione. In questo senso, il film di Paolo Sorrentino, vincitore del premio Oscar al miglior film straniero, è esattamente il contrario di evocativo: è ridondante. Lo sono i personaggi, monodimensionali e bozzettistici: l’artista autolesionista dalla profonda insicurezza gnoseologica, l’ex-militante di sinistra botulinata, il cardinale dalla vocazione pantagruelica. Ma, a loro modo, lo sono anche i personaggi principali: Romano-Carlo Verdone, inchiodato ai suoi dialoghi da avanspettacolo, e lo stesso Jep Gambardella, magistralmente interpretato da un Toni Servillo in stato di grazia, che da solo tuttavia non riesce a colmare i vuoti di una sceneggiatura più inesistente che fragile. Discorso diverso per Ramona-Sabrina Ferilli, personaggio sfaccettato quel tanto che basta per apparire profondo rispetto al piattume generale. Ridondante è anche la stessa Roma che, a differenza di quanto è stato scritto e detto, non è affatto tra i protagonisti del film. La città eterna è solo la scenografia, caricaturale ed ingombrante, di una vicenda che non ha ne’ un inizio ne’ una fine e che gira a vuoto come Jep gira a vuoto per le strade di Roma, guardandosi intorno senza vedere niente veramente. Stesso discorso vale per il messaggio del film, se così lo si vuole intendere: la grande bellezza non sono i monumenti e le opere d’arte del passato, tacite e immobili vestigia di un tempo dorato che non ritornerà più, bensì la promessa di felicità di un seno giovane, di un fiore non colto nel suo primo sbocciare. La grande bellezza è dunque l’ordinario che appare inaspettatamente straordinario, come il corpo nudo di Elisa, primo e forse unico amore di Jep, o lo straordinario che irrompe nell’ordinario, come i fenicotteri che compaiono sul terrazzo all’alba (realizzati con una computer grafica che più che ordinaria o straordinaria è francamente perturbante). Un messaggio ridondante, anche nelle parole della santa, inquietante feticcio tirato fuori come un deus ex machina alla fine del film, la quale dorme sul pavimento e si nutre di radici perché – non parafraso, cito – le radici sono importanti. Ma chi pensa di avere di fronte Sorrentino, un pubblico di bifolchi sensibili solo alla comunicazione verbale? Forse sì. Forse è proprio per questo pubblico massificato e acritico (il pubblico degli Oscar?) che il film è stato confezionato su misura. E in questo senso la vittoria agli Oscar è meritatissima. “La grande bellezza” è un film che non evoca ma ostenta, abbozza ma non allude, resta sempre in superficie, è velleitario di un velleitarismo cronico e non ha spessore neanche in filigrana. Il cinema è un’altra cosa. Anzi, è altrove. Proprio come la grande bellezza.1d873fc5-58de-489f-a64a-511cec1aa30e

Lascia un commento