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Orestea civile. Una tragedia elettorale

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Più che al “Che fare?” di černyševskijana memoria è forse il caso di rivolgersi, in vista delle prossime elezioni politiche, all’oresteo “Che cosa debbo fare?”. Perchè la questione, ne è convinta chi scrive, è prima di tutto morale.Orestea civile (1)
Chi, come me, ha sempre provato un brivido lungo la schiena di fronte alle tante, troppo lapidi commemorative nei cimiteri e nelle piazze d’Italia che ricordano come molti ragazzi e ragazze hanno dato la vita per liberare l’Italia dal nazifascismo e per permettere a noi, oggi, di mettere una croce a matita su una scheda, non può non trovarsi in imbarazzo di fronte alle dichiarazioni di non voto, nutrendo una malcelata antipatia nei confronti di coloro che, lamentando una reale mancanza di alternative, si sono a più riprese tenuti lontani dalle urne. Eppure, stavolta, anche le più granitiche, epidermiche certezze si sgretolano di fronte alle alternative che abbiamo davanti. La ragione, è presto detta: l’odiosa formula coniata da Montanelli nel 1976 per legittimare il voto alla DC in chiave anticomunista, “turarsi il naso”, per la prima volta non appare così inappropriata.
Occamisticamente, non dovremmo incontrare grandi difficoltà nel tagliare fuori dal ventaglio di possibilità tutti quei partiti (PD in primis) che hanno sposato dogmaticamente la causa del pareggio di bilancio. Il sì al Fiscal Compact, di cui più diffusamente e tecnicamente si parla in altre pagine di questo giornale, è forse un discrimine più attuale e determinante della dicotomia destra-sinistra per comprendere le posizioni delle varie coalizioni. Al pari di una cartina al tornasole, la volontà di rispettare gli impegni presi in sede europea la dice lunga sulle effettive priorità di un’eventuale compagine governativa. In modo analogo, le motivazioni della squalifica di Grillo e del suo M5S dalle possibili opzioni sono state in modo molto chiaro e del tutto condivisibile analizzate dal nostro Francesco Marchesi nel precedente numero. Che cosa resta dunque? Poco o niente altro, ad eccezione della Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia, rispetto alla quale è perciò doveroso porsi alcuni interrogativi.
Innanzitutto, la posizione del movimento guidato dal magistrato palermitano a proposito della rinegoziazione del debito, opposta a quella del PD, non può non apparire come un elemento positivo. Il no netto al Fiscal Compact è il primo punto del programma di RC e questo è indubbiamente un dato incoraggiante. Anche perché, in questa direzione, sono davvero pochissime le voci che si levano a sostegno dell’idea (e dell’esigenza) di un’alternativa alle logiche di potere, economico in primo luogo, che costringono il nostro paese nella morsa dell’austerità. La domanda che sorge spontanea è perciò: era davvero necessario che queste cose venissero a raccontarcele intellettuali provenienti dalla società civile? Il tentativo, mai del tutto compiuto e comunque disconosciuto da alcuni suoi fautori (come il sociologo Luciano Gallino), di dar vita ad un’opposizione di governo che non avesse con i partiti che un legame addizionale appare tanto incomprensibile quanto inefficace. Come si può bollare, come Antonio Ingroia ha fatto, La Sinistra – L’arcobaleno come un’accozzaglia di forze politiche etichettando invece RC come movimento autonomo a cui i partiti hanno aderito senza essere vittime della stessa retorica antipolitica con la quale Grillo ammannisce, come Berlusconi prima di lui, le piazze italiane? Si è scommesso sulla forma invece che sui contenuti e il messaggio che si è fatto passare non è stato “Noi siamo alternativi agli altri perché pensiamo cose diverse da loro!”, bensì “Noi siamo alternativi agli altri perché siamo diversi da loro!”. Prova ne sia la scelta di alcuni dei candidati di maggiore spicco, selezionati in base ad un criterio di popolarità, per i cognomi “illustri” (è il caso di Ilaria Cucchi) o per essere già noti al grande pubblico (come Sandro Ruotolo).
Ma dietro questa evidente concessione alla politica-spettacolo si nasconde probabilmente dell’altro: le forche caudine elettorali hanno spinto realtà molto diverse tra loro, dai comitati referendari di ALBA prima e di Cambiare si può poi a Rifondazione Comunista, passando per IdV e PdCI a ripararsi (è il caso di dirlo) sotto lo stesso ombrello, nel tentativo, più o meno dichiarato, di fare fronte comune contro l’avanzata dell’asse montiano. In quest’ottica il no al Fiscal Compact può essere più banalmente interpretato come elemento aggregante, collante debole ma necessario al frontismo che sta alla base di una convivenza forzata. Viene da chiedersi, a questo proposito, se non sia forse proprio questa la ragione per la quale è alla componente “comunista” della coalizione che si è appaltato il discorso relativo alla materia economica: per una sostanziale mancanza di interesse da parte dell’anima della società civile o, peggio ancora, per una reale incapacità di affrontare l’argomento. Quel che è certo è che il Giano bifronte che si presenta agli elettori è del tutto privo di un’identità definita o anche solo elaborata, col risultato che sono più le perplessità che suscita che gli entusiasmi.
Orestea civile (3)E se è al nicodemismo che si deve attribuire una certa tendenza ad abbracciare acriticamente la convinzione che ciò che conta non sono le idee ma le persone, la preoccupazione che neanche il ventennio berlusconiano sia riuscito a mettere in guardia dai rischi di una spettacolarizzazione della lotta politica non è del tutto dissipata. Puntualmente, per vanità o nel tentativo di corteggiare le parti basse dell’elettorato, si ricade nell’errore di scrivere a caratteri cubitali sul simbolo elettorale il nome del candidato premier. In questo caso, il magistrato Ingroia, qualifica che purtroppo offre già di per sé il fianco a critiche e strumentalizzazioni provenienti da ogni parte. Se infatti il partito di un altro magistrato, l’IdV di Antonio Di Pietro, è stato l’unico a fare opposizione in Parlamento al governo tecnico, il secondo punto del programma di RC, la difesa della legalità e la lotta alla mafia, ci propone una volta di più una sinistra prigioniera del giustizialismo. In un’intervista successiva al suo intervento all’assemblea del teatro Quirino, Ugo Mattei critica Ingroia su questo punto, accusandolo di guardare al ripristino della statualità come panacea di ogni male e all’ottica rigidamente legalista di quest’ultimo oppone quella che definisce come un’illegalità creativa e costituente. Si tratta di uno spunto che ci aiuta a rimarcare la distanza che c’è tra legalità e giustizia: l’evasione fiscale è esecrabile ma fare scempio legalmente della scuola e della sanità pubbliche lo è di più. In altre parole, ha senso difendere a tutti i costi la legalità se la legge è fatta di leggi ingiuste? La giustizia civile non può esistere senza giustizia sociale, senza la quale, a sua volta, non ci sono le premesse per costruire una società giusta.
Ci si potrebbe allora chiedere anche se sia corretto parlare di sinistra in riferimento a realtà come Cambiare si può e il Movimento Arancione di Luigi De Magistris (un altro magistrato). L’esperienza de La Sinistra – L’arcobaleno non è in questo senso paragonabile a quella di RC, che di queste realtà costituisce l’approdo. In quel caso, anche se ovattato, un riferimento alla sinistra c’era e a rappresentare il partito in televisione e sui giornali era uno storico leader della sinistra italiana come Fausto Bertinotti. Certo, i compromessi erano stati tali e tanti da rendere legittimo il dubbio che ne fosse valsa la pena ma in questo caso ogni riferimento ad una tradizione politica – diciamolo pure – comunista sembra addirittura scomparso, spazzato via come polvere sotto il tappeto. Chi pensava che il PD avesse intrapreso da solo la strada della damnatio memoriae dovrà a malincuore constatare che Bersani e compagni (si fa per dire) hanno degli alleati in questa vile crociata. Le parole, ricordava Nanni Moretti nella celebre scena di Palombella rossa, sono importanti. Perché allora espungere ogni riferimento non solo al comunismo ma anche alla sinistra dal logo e dal nome di RC? Mi si dirà che anche in questo caso si tratta di un vizio di forma, di una necessità nicodemitica, e che ciò che conta sono, una volta di più, i contenuti. Ma un conto è darsi una patina di appeal mediatico rinunciando a parte della propria identità, come era stato per La Sinistra – L’arcobaleno, un conto è sradicarsi da una tradizione alla quale in fondo non si sente neppure di appartenere o della quale si è arrivati a vergognarsi, e da ben prima di quest’appuntamento elettorale.
Il punto, io credo, è proprio questo. Per quanti possano essere gli sforzi di Ingroia e della sua RC, ciò che manca a questa operazione è una prospettiva un po’ più ampia di quella che può dare un programma elettorale, per quanto condivisibile nei suoi passaggi fondamentali. Delle radici un po’ più profonde, che non affondino soltanto nella storia personale, forte, interessante, dei candidati. Il comunismo, diceva Rossana Rossanda, ha sbagliato ma non è sbagliato. È ora che chi crede ancora nella rappresentanza parlamentare faccia i conti, una volta per tutte, con questo giudizio. Solo allora noi elettori saremo liberi dal dubbio di Oreste, la tragica scelta tra libertà e necessità.Orestea civile (2)

«Non sono mai stata populista: non lo può essere chi è venuto alla politica dal rifiuto del fascismo. Avevo visto il poveraccio fascista, quello che si era messo nelle milizie nel 1944 perché non sapeva dove andare. Conoscevo al sud chi si faceva carabiniere o seminarista per necessità ma diventava poi molto carabiniere e molto seminarista. Le scelte prima le facciamo poi ci fanno.»

ROSSANA ROSSANDA, La ragazza del secolo scorso