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Vuote rosa. Le donne e la politica

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Vuote rosa (2)Nel recente confronto televisivo che ha visti schierati i candidati alle primarie del centrosinistra, Laura Puppato ha chiesto agli elettori – anche se forse sarebbe più corretto dire alle elettrici – di votarla perché donna. In effetti, numerosi sono i comitati che hanno sostenuto la candidatura della consigliera regionale del Veneto proprio sulla base dell’identità sessuale (uno su tutti “Donne per Laura Puppato”), lamentandone tuttavia la scarsa visibilità televisiva, significativamente ribattezzata “burqa mediatico”. Le “quote rosa”, riferimenti all’attualità a parte, rappresentano un tema che negli ultimi anni è stato lungamente dibattuto e rispetto al quale le posizioni solitamente prescindono dall’area politica di appartenenza. Che l’unica candidata donna alle primarie, come ogni articolo e servizio ha descritto la Puppato nelle ultime settimane, sottolinei lei stessa il proprio genere come se si trattasse di una nota di merito, non può non far riflettere.
Se da un lato infatti le quote rosa, quote minime di partecipazione femminile alla vita istituzionale, sono viste come un male necessario in un paese in cui vent’anni di berlusconismo hanno generato grotteschi stereotipi sul ruolo della donna, dall’altro è difficile instaurare un dibattito sull’argomento che esuli da pregiudizi e abbia solide basi concettuali. Il nocciolo della questione sta probabilmente in ciò che si intende per “genere”. Essere donna è a quanto pare bastevole per ottenere la fiducia degli elettori. Il genere conferisce perciò un valore aggiunto alle proprie argomentazioni, finendo in alcuni casi addirittura per sostituirvisi. Eppure, se Vendola avesse concluso il proprio discorso rimarcando la sua distanza degli altri candidati in quanto unico candidato omosessuale, stupore misto a indignazione avrebbe pervaso le file del pubblico. E lo stesso forse sarebbe avvenuto se, alla vigilia della sua rielezione, Obama si fosse rivolto al popolo americano dicendo: “Votatemi, sono nero!”. Perché allora non ci stupisce che una donna svuoti di contenuti la discussione riducendola ad una mera questione sessuale?

Recentemente Vladimir Luxuria ha commentato il dibattito sulla presenza femminile in politica paragonando le quote rosa alla legge che impone l’assunzione di persone svantaggiate (invalidi, tossicodipendenti, condannati) nelle cooperative sociali. L’intento voleva essere provocatorio ma che le donne in Parlamento abbiano una posizione subalterna rispetto ai colleghi maschi è un dato di fatto, come dimostrano non solo e non tanto i numeri quanto determinate dinamiche. Negli ultimi anni le donne che hanno ricoperto la carica di ministro della Repubblica Italiana sono state quasi sempre prive del cosiddetto “portafoglio”? Si pensi al IV Governo Berlusconi, nel quale solo Mariastella Gelmini e Stefania Prestigiacomo, rispettivamente ministri dell’Istruzione e dell’Ambiente, avevano a disposizione dei fondi. Fondi che, tuttavia, erano destinati ad essere drasticamente ridotti. Non è un caso. È una pratica diffusa infatti quella di affidare a donne ruoli che sovrintendono a feroci tagli di bilancio. O a irrilevanti questioni etiche.
Si prenda a titolo d’esempio il dibattito che portò al referendum sulla fecondazione assistita del giugno 2005: in quell’occasione Rosy Bindi e Stefania Prestigiacomo, allora ministro per le Pari Opportunità, offrirono a reti unificate un ritratto piuttosto pietoso della rappresentanza politica femminile. Attacchi personali e offese gratuite resero quel confronto, perpetuatosi di talk show in talk show, uno spettacolo che, al di là del merito della questione, di edificante aveva poco o nulla. Non sarebbe bastato tuttavia un maggior fair play a renderlo meno patetico, dal momento che nasceva con un vizio di forma. Qualche brillante maître à penser deve aver avuto l’idea: “Fecondazione assistita? Chi meglio di due donne per parlarne in TV!”. Il risultato deludente lo si deve proprio a questa logica perversa, secondo la quale non conta tanto ciò che si ha da dire quanto ciò che si è o si rappresenta.Vuote rosa (3)

Frutto della medesima logica sono le quote rosa, che ben lungi dal colmare un deficit di rappresentanza e appianare le disparità tra generi ingabbiano la partecipazione femminile in forme ipostatizzate e ne fanno in alcuni casi addirittura un imbarazzante cliché. Se a capo degli enti pubblici e ai vertici delle aziende private le donne sono poche è perché l’Italia è un paese fondamentalmente privo di un sistema di welfare che consenta di conciliare la dimensione professionale con quella familiare, costringendo nella maggior parte dei casi le donne ad una scelta tra l’una e l’altra.
E non c’entra, come qualcuno potrebbe pensare, la meritocrazia. Asserire che il ruolo che faticosamente arrivano a ricoprire le donne devono meritarselo è sbagliato quasi quanto proclamarsi a favore delle quote rosa, in base alle quali esse si ritroverebbero ad occupare posizioni indipendentemente dalle loro reali inclinazioni o attitudini. Purtroppo l’arretratezza socio-economica dell’Italia non consente una gara ad armi pari. Per questo parlare di merito appare fuori luogo: non si tratta di mettere in discussione la preparazione e la competenza delle candidate di sesso femminile, bensì la possibilità che queste si rivelino senza essere svilite da una soluzione inefficace e a tratti umiliante – le quote rosa, appunto –, che non mira a risolvere i problemi strutturali alla base di una disparità congenita ma si accontenta, per così dire, di metterci una pezza.

Il nodo gordiano della questione sta, a parer mio, nell’impossibilità di una risoluzione strutturale che non abbia declinazioni politiche. La fallimentare esperienza di “Se non ora quando?”, il movimento nato intorno alla manifestazione del 13 febbraio, lo dimostra chiaramente. Il gruppo di donne “diverse per età, professione, provenienza, appartenenza politica e religiosa” che forma il comitato promotore guarda alla trasversalità come a una ricchezza. Ma l’apertura a cui si fa riferimento è in questo caso sinonimo di ambiguità: una mancanza di basi politiche che rischia di spalancare le porte a discutibili prese di posizione come quelle della Santanchè con il suo femminismo antislamico.
Personalmente, ritengo che nessuna rivendicazione di genere abbia senso a meno che non sia inserita in un contesto politico che si faccia carico di agire sulle cause strutturali della disparità tra individui, a qualunque categoria essi appartengano. Non m’importa che il ministro per le Pari Opportunità sia una donna, se non è in grado di ripensare una società che annulli la dipendenza economica delle vittime di abusi domestici. Mi piacerebbe piuttosto veder occupare quel posto ad un uomo che si sia espresso chiaramente su temi come l’aborto e il matrimonio fra persone dello stesso sesso. Questo perché credo che lo stato di cose esistenti possa essere rovesciato solo da una presa di posizione tout court, che non accetti compromessi e non agisca sulla base di istanze depauperate di contenuti, svilite dalla mancanza di argomentazioni, prive di radici politiche. In una parola: vuote.Suffragette Protestor